Lo Sport per Disabili

  1. Introduzione.

La pratica sportiva di individui disabili costituisce una realtà  relativamente recente e questo non può stupire se si pensa che solo nel 1944 questi, grazie all’entusiastico impegno di Sir Ludwig Guttmann, iniziarono «a praticare sistematicamente un’attività sportiva».

Il 1 Febbraio 1944, nell’ospedale di Stoke Mandeville, il dottor Guttmann aprì il primo centro di riabilitazione motoria: i primi pazienti-atleti «a cimentarsi nelle varie discipline sportive furono giovani di ambo i sessi appartenenti alle forze armate britanniche, portatori di lesioni midollari per cause belliche». L’opera pioneristica nella quale si cimentò Sir Ludwig ebbe due meriti: il primo fu «di riconoscere l’importanza della collaborazione attiva del malato»; il secondo fu comprendere la necessità di un «contesto adattato, un ambiente favorevole, nel quale gli stimoli» fossero appropriati alla condizione fisica del disabile. Solo con l’azione sinergica di queste due condizioni si potevano «proporre dei nuovi interessi, ricreando i presupposti per un’adeguata motivazione alla collaborazione del soggetto, per ricostruire attivamente la propria esistenza». La modernità dell’opera di Sir Ludwig Guttmann stette proprio in questo: nell’avere intuito che bisognava investire, curare e sviluppare le capacità residue dei disabili. E non si fermò qui. Quando, nel 1948, istituisce i primi Giochi di Stoke Mendeville per atleti disabili, considerati gli avi dei Giochi Paralimpici, capisce che l’attività sportiva non solo poteva essere parte integrante in un programma di riabilitazione, ma poteva, anzi doveva, anche diventare parte della vita e opportunità di reinserimento e riconoscimento sociale, aiutandoli a ritrovare autostima, fiducia in sé stessi e dignità. Inoltre la società, che si avvicinava a loro in queste situazioni gioiose e di festa, iniziava a maturare «una maggiore disponibilità verso la disabilità».

Il lavoro di questo dottore tedesco, inglese di adozione, sessant’anni dopo si è tradotto in una nuova concezione dell’educazione e della pratica sportiva: oggi parlare di attività e competizioni sportive adattate, di Sport per Tutti e di sport integrato non è più una chimera ma una realtà viva e, per questo, dinamica e in continua trasformazione.

 

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  1. Le attività fisiche e le competizioni sportive adattate.

L’attività fisica adattata (A.P.A.) viene definita come «l’insieme di conoscenze e competenze interdisciplinari rivolte a evidenziare e risolvere problemi psicomotori nell’ambito della specifica disabilità, difendere il diritto alla salute e ad uno stile di vita attivo e sviluppare un adeguato servizio scuola-comunità al fine di realizzare il processo di inserimento e soprattutto d’integrazione».

Le A.P.A nascono ufficialmente negli Stati Uniti intorno agli anni Cinquanta ma, una loro forma grezza, è presente già nei primi decenni dell’Ottocento. Infatti nel 1838  nella scuola per ciechi di Boston, la Perkins School, si diete vita a delle attività motorie svolte all’aria aperta per poi avviare, due anni più tardi, lezioni di nuoto e di ginnastica. Tuttavia, nonostante la bontà dell’iniziativa, questa attività, così come altre simili che si svilupparono in quel periodo, risentiva «fortemente dell’orientamento generalizzato in tema di attività motorie» in cui si favoriva una visione medica dello sport, quindi di fortificazione del corpo e di prevenzione delle malattie, a discapito di una visione globale dello sport quale mezzo di benessere psico-fisico.

Ancora una volta sarà la scuola a focalizzare l’attenzione su queste attività e ad avviare, così, un cambiamento di mentalità: con l’obbligatorietà dell’educazione fisica, cresce l’attenzione sulla necessità di programmi sempre più specifici e innovativi e così, nel 1952, fu istituito un Comitato con lo scopo di coordinare le varie attività sportive per i soggetti disabili.

Nel 1973, ventun’anni dopo l’istituzione del Comitato, fu fondata la Federazione Internazionale delle attività fisiche adattate (I.F.A.P.A.) e si ufficializzò l’acronimo A.P.A.

Oggi «lo sport adattato comprende tutte quelle discipline» ideate per chi presenta dei bisogni particolari e, quindi, tutte quelle particolari pratiche sportive ideate appositamente per i disabili, non rientrano in questa categoria. Nei paesi di maggiore affermazione delle attività adattate, queste rientrano anche nelle attività scolastiche ed extrascolastiche, con finalità ludiche e educative, oppure terapeutiche e riabilitative: infatti «lo studio e la ricerca nel campo delle A.P.A.» ha dimostrato che «attraverso lo sviluppo e l’ottimizzazione delle capacità residue (…) si arriva ad un incremento del grado di mobilità e autonomia personale, necessari per l’integrazione e la partecipazione alla vita sociale».

Le A.P.A., oltre ad essere entrate nella quotidianità dell’amatore sportivo disabile, hanno prodotto dei risvolti competitivi tradotti in eventi che, tra i più noti, annoverano le Paralimpiadi e gli Special Olympics World Games.

Come anticipato in precedenza, il padre fondatore delle Paralimpiadi è Sir Ludwig Guttman che nel luglio del 1948 organizzò i primi Giochi per disabili di Stoke Mendeville cui presero parte, oltre ai suoi pazienti paraplegici, anche altri di nazionalità olandese. Il clamore suscitato dall’iniziativa del medico tedesco fu tale che ben presto sempre più nazioni d’Europa chiesero di parteciparvi e, nel 1956, il C.I.O.li riconobbe. L’accresciuta partecipazione di un numero sempre maggiore di atleti disabili, portò i Giochi a spostarsi dalla cittadina londinese e approdare, nel 1960, a Roma.: fu il primo anno in cui la manifestazione si svolgeva nella città che ospitava anche le Olimpiadi ma, solo dal 2001, si disputarono sempre in coincidenza con le attività olimpiche.

Il 1976 fu un anno contraddittorio: da una parte in Svezia si inaugurò la prima edizione Paralimpica invernale, dall’altro si assistette al primo scontro razziale dovuto alla partecipazione di atleti sudafricani. «Ben otto nazioni, che non condividevano l’apertura multirazziale» dei Giochi, si ritirarono ma, grazie a finanziamenti di privati, l’edizione si svolse regolarmente e anzi, per la prima volta, anche atleti amputati e ciechi ne presero parte. Proprio per la partecipazione di queste nuove categorie, questa edizione viene considerata come la prima vera e propria Olimpiade per disabili.

I Giochi di Barcellona del 1992, «per la prima volta ripresi con collegamento televisivo completo», segnarono una svolta fondamentale nella diffusione di una nuova cultura sportiva e la partecipazione dei disabili alle iniziative paralimpiche fu tale che l’edizione di Sydney 2000 vide coinvolti «ben 3843 atleti in rappresentanza di 123 paesi».

L’accresciuto interesse mediatico si tradusse anche nella creazione di un logo proprio: nel 1994, infatti, si realizzò un simbolo composto da tre Tae-Geuk, simbolo coreano simile a una goccia, di colore blu rosso e verde (Figura 3.1). Questi simboli rappresentano rispettivamente lo spirito, il corpo e la mente dell’uomo.

Nel 2004 è stato scelto un nuovo logo in cui si trovano tre agito, sempre nei medesimi colori, che si muovono attorno a un punto centrale (Figura 3.2). Questa scelta sta ad enfatizzare il ruolo centrale svolto dal Comitato Paralimpico Internazionale come raggruppatore degli atleti da ogni parte del mondo.

Gli Special Olympics World Games, la cui prima edizione si tenne a Chicago nel 1968, sono stati fondati da Eunice Kennedy Shrivere si rivolgono a tutte le persone con handicap mentali, che hanno compiuto gli otto anni.

La Kennedy, «sostenitrice per più di tre decenni della valenza terapeutica dello sport per le persone» con disabilità intellettiva, si impegnò a predisporre un programma internazionale di competizioni atletiche e di allenamenti sportivi. Da allora nel Mondo sono 180 i Paesi che adottano il programma Special Olympics, e più di tre milioni di membri di famiglie. Così come per i Giochi paralimpici, anche le Special Olympics comprendono un’edizione estiva ed una invernale, ognuna delle quali con cadenza quadriennale.

Il motto dell’omonima associazione è “Let me win. But if i cannot win, let me be brave in the attempt”, mentre il simbolo è composto da cinque persone stilizzate con sei braccia aperte: le  braccia in basso stanno a significare la depressione per le sconfitte subite, quelle nel mezzo la condivisione e l’integrazione e, le braccia in alto, la soddisfazione e la felicità per il successo delle proprie esperienze (Figura 3.3).

3.1
Figura 3.1
3.2
Figura 3.2

 

 

 

 

Figura 3.3
Figura 3.3

Nonostante sia il Comitato Paralimpico, che gli Special Olympics siano entrambe organizzazioni riconosciute dal C.I.O. ed entrambe si occupano della diffusione della pratica sportiva nei portatori di handicap, tra loro differiscono ampiamente.

La differenza sostanziale «risiede nella specifica disabilità degli aderenti ai due movimenti»: tutti gli atleti con diverse disabilità per i primi; solo atleti con disabilità mentale per i secondi. Però se la partecipazione alle Paralimpiadi è subordinata al raggiungimento di standard preliminari, ripercorrendo «la filosofia della concorrenza sportiva in modo che si determini il migliore atleta», negli Special Olympics tutti i partecipanti sono «incoraggiati a partecipare alle attività sportive, indipendentemente dalle loro performance»: infatti le gare sportive sono pensate in modo che ogni atleta possa «competere con le medesime abilità degli altri» così da poter gareggiare con uguali opportunità di vittoria.

Al di là delle diversità evidenziate, entrambe le organizzazioni intendono permettere ai loro atleti di dare il meglio di loro stessi, «in un contesto sportivo altamente stimolante».

 

  1. Il Movimento sportivo dello Sport per Tutti.

Se già nei primi decenni dell’Ottocento si trovano tracce di rudimentali forme di attività fisiche adattate, solo nel 1966 l’Europa inaugurerà «una nuova politica tesa a dare diversa visibilità allo sport». La crescente industrializzazione e urbanizzazione, unite alle moderne condizioni di lavoro, avevano prodotto un bisogno sempre più «crescente di attività e di sport all’aria aperta» e di tutte quelle attività non considerate di alto livello. La risposta della Comunità Europea si tradusse nella stesura, il 20 marzo 1975, della “Carta europea per lo Sport per Tutti”: qui l’Europa «si impegnava a dare ad ogni individuo la possibilità di praticare uno sport nonché a proteggere e sviluppare le basi morali ed etiche dello sport, così come la dignità umana e la sicurezza di coloro che partecipano a delle attività sportive». La “Carta europea per lo Sport per Tutti” segnò il riconoscimento della pratica sportiva come diritto inalienabile di ogni cittadino, e attribuì agli Stati Membri la responsabilità nel godimento di tale diritto ma, nonostante la «presa di consapevolezza della politica comunitaria in materia di sport», solo nel 1992 si rese operativa la Carta.

La filosofia dello Sport per Tutti, promossa da una specifica Commissione che si preoccupa di incoraggiare la pratica sportiva egualitaria senza distinzioni di sesso, razza, classe e condizione fisica, è oramai talmente in crescita da essere anche alla base dell’ideale olimpico che, al contrario, fin dalle sue origini esaltava il vigore, la forza fisica e abbracciava esclusivamente una politica di pensiero di competizione sociale.

Il movimento Sport per tutti, in Italia, ha iniziato a diffondersi largamente intorno agli anni Settanta e, a seguito del decreto legislativo n. 242/’99, è stato istituito il Comitato Nazionale Sport per Tutti. Il Comitato, nato sotto i migliori propositi, ha avuto breve durata ed è stato soppresso nel 2004.  Nonostante ciò, nello stesso anno, a Roma è stata presentata la “Carta dei principi dello Sport per Tutti”, redatto grazie al contributo delle Associazioni e dei maggiori Enti di promozione dello sport amatoriale.

Il movimento dello Sport per Tutti ha contribuito concretamente a «ricondurre il disabile alla sua dimensione di persona, non più identificato con la patologia, bensì considerato atleta come gli altri»: lo sport, in quanto diritto, si allontana dalla filosofia del confronto per entrare in quella «dell’universalità della condizione umana». L’impegno tenuto dal movimento ha contribuito fortemente sull’emancipazione sportiva delle persone disabili, tanto da aver svolto un ruolo decisivo nel completo riconoscimento delle A.P.A, sia ludiche che agonistiche.

La filosofia dello Sport per tutti rilancia l’attività fisica non solo come autentico diritto di cittadinanza, quindi soggettivo, ma anche della società nel suo insieme, quindi che investe anche il mondo delle pubbliche istituzioni e della politica. Il moderno Stato, lo Stato sociale, ha precise responsabilità perché lo Sport per Tutti si è dimostrato essere un veicolo di miglioramento nella qualità della vita di tutti i cittadini, disabili e non, non solo per gli aspetti medici e fisici più immediatamente evidenziabili, ma soprattutto perché favorisce il «vitale recupero della comunicazione sociale e dei rapporti interpersonali». La pratica fisica e sportiva costituisce, oramai, una parte rilevante della salute individuale e collettiva e se la qualità della vita ne trae vantaggio «allora lo sport per tutti non può che essere considerato una pratica che deve entrare e stabilizzarsi nei comportamenti e nel costume di tutti noi».

  1. Le attività sportive integrate.

Nonostante i buoni propositi alla base delle A.P.A, la loro concezione risulta ancora fortemente legata agli aspetti riabilitativi e adattativi, lasciando fuori un’interpretazione pedagogica dell’attività fisica. Quello che dobbiamo chiarire e se si vuole lavorare sulla disabilità o sulla persona perché, nel primo caso, si evidenzierebbe un rapporto tra corpo e malattia, a discapito di un rapporto tra corpo e salute. «Negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza delle positive relazioni tra attività fisica e salute, tra benessere psicofisico e stili di vita attivi»: qui per salute si vuole intendere quanto già De Bartolomeis aveva chiarito negli anni Settanta, cioè non l’assenza di malattia ma «benessere che produce e si espande per cui la qualità delle attività e dei rapporti con le persone e con l’ambiente ha un ruolo essenziale e decisivo». Lo stato di benessere, nella nostra società moderna, è diventato sempre più complesso tanto che è possibile evidenziarne una natura soggettiva, legata alle proprie attese e condizioni, che però si riflette nel sociale, in relazione agli altri, perché proprio in queste relazioni il nostro benessere assume valore e significato.

Il crescente interesse degli ultimi decenni sull’efficacia e sull’importanza delle attività motorie per il benessere psicofisico e sociale, è stato evidenziato anche dal Parlamento Europeo che, nel febbraio del 2003, pose l’accento «sull’importanza dello sport nella formazione della persona, sui valori che esso può trasmettere e sul suo contributo positivo per il processo di apprendimento, sulle opportunità di mobilità transazionale e di scambi culturali e di promozione per l’inclusione sociale dei gruppi sfavoriti». Se queste affermazioni difficilmente posso essere messe in dubbio, quello che si deve evidenziare è la mancanza di «una seria riflessione basata su ricerche e sperimentazioni nello specifico settore che siano correlata all’educazione e alla formazione»: solo la promozione di tale processo di rielaborazione delle attività fisiche e sportive porterà al ridimensionamento delle logiche legate alla sola prospettiva della prestazione agonistica, appropriandoci, così, «dei valori e dei significati più vasti dell’educazione motoria».

Infatti «l’atto motorio non può essere visto [solo] come uno spostamento del corpo nel tempo e nello spazio, bensì come un modo per stabilire rapporti significativi con la realtà e con i propri simili attraverso un mezzo peculiare e privilegiato, il corpo»: il movimento, che ci permette di esprimersi, rivelando ciò che è dentro di noi, o di operare sulla realtà, ha una natura che rivela significati multipli e, servirsi dell’attività fisica nei processi di apprendimento, riconosce allo sport valenze formative, educative e sociali.

Quando si lavoro con un portatore di disabilità ci si focalizza più, se non esclusivamente, sulle carenze, cioè su quello che non sa fare, piuttosto che prendere in considerazione la specifica situazione dell’individuo e attivare un processo di attivazione e stimolazione: questo evidenzia un atteggiamento medico e culturale piuttosto che pedagogico. E questo atteggiamento si contesta anche nell’applicazione delle attività fisiche adattate, dirette «esclusivamente a persone con disabilità, persone anziane o popolazioni cosiddette speciali», in cui lo sport resta comunque relegato in ambienti settoriali.

Può succedere che, chi lavora in ambito sportivo con ragazzi disabili, pensa troppo spesso che questi non riescano a portare a termine determinate attività perché incapaci e non, invece, perché necessitano di strategie di apprendimento diverse e di particolari interventi. Questa concezione, unita alla necessità di seguire inflessibilmente le regole, «ha portato (…) alla scelta di svolgere attività nel campo delle scienze motorie e sportive in maniera separata tra normodotati, o “a sviluppo tipico”, e persone con disabilità»: con le attività fisiche integrate, invece, si vuole attribuire allo Sport un valore sociale, promotore di integrazione e “campo” di confronto. Lo Sport, così inteso, riesce a realizzare «pari opportunità attraverso la sensibilizzazione alla costruzione di proposte di attività motorie e sportive in un contesto di integrazione»: l’obiettivo è alimentare un processo di trasformazione così da giungere «allo sviluppo di attività motorie che non siano solo ipotizzate nella concezione di adattamento alla singola persona, isolata per la sua specifica menomazione e deficit, ma coordinate e inserite in una situazione di relazione con gli altri».

L’espressione del proprio diritto di uguaglianza, «pur nella differenziazione delle offerte e del reciproco contributo», comporta una rivoluzione concettuale che si inserisce nel più vasto movimento di rinnovamento culturale rispetto alla concezione di diversa abilità e al «riconoscimento del significato positivo della diversità come patrimonio e risorsa caratterizzanti proprio una società evoluta e moderna». Ovviamente questa trasformazione ha bisogno della cooperazione e del coinvolgimento di chi è impegnato in prima persona nella diffusione e promozione delle attività sportive in contesti integrati, ma anche di chi vi partecipa direttamente in prima persona.

A tal proposito, negli ultimi anni, la stessa I.F.A.P.A. si è interrogata sulla possibile natura segregativa insita nelle attività che promuove tanto che, durante una Conferenza tenuta a Verona da Claudine Sherrill, è emersa la volontà di aprirsi «alla creazione di ambienti di accoglienza e di lavoro comune con le persone normodotate, studiando le relazioni e la partecipazione anche prevedendo la presenza ed il coinvolgimento delle persone con disabilità a lezioni di gruppi di studio universitari su questi argomenti».

Attualmente la concezione culturale, sia dei “non addetti ai lavori” che dei conoscitori del settore, limita la piena espressione del valore sociale ed educativo dell’attività motoria in contesti di integrazione. Con questo non si vuole negare o screditare la possibilità, o la necessità per alcune situazioni, di «momenti specifici nello svolgimento di determinate attività» ma è doveroso immaginare anche la realizzazione di una dimensione maggiormente inclusiva: per superare le limitazioni che impediscono il soddisfacimento delle «esigenze formative più generali è necessario sollecitare lo sviluppo di una sensibilità a ricercare e costruire modelli di attività motorie e sportive integrate in ambienti inclusivi, sia con riferimento ai processi di insegnamento-apprendimento che nell’organizzazione del tempo libero».

I pregiudizi verso i disabili hanno costruito veri e propri «steccati ambientali» che continuano ad ostacolarli nell’avere un ruolo attivo e partecipativo nella vita pubblica. Occorre impegnarsi per pensare la disabilità fuori dagli schemi «della menomazione ed a considerare il concetto di qualità della vita sia nelle politiche socio-sanitarie che, più specificatamente, nella pianificazione dei progetti educativi».

La pratica sportiva è certamente un fondamentale strumento, ai fini della piena realizzazione dell’individuo disabile, che coniuga la partecipazione alla vita sociale con il bisogno di salute: la Commissione Europea, nel Libro Bianco sullo sport adottato nel 2007, individua proprio nello sport «uno dei principali mezzi a disposizione per promuovere l’inclusione sociale dei disabili».

  1. La situazione italiana.

Se il movimento paralimpico internazionale deve la sua nascita a Sir Ludwig Guttmann, in Italia lo stesso discorso va fatto per il dottor Antonio Maglio che si adoperò affinché Roma potesse ospitare la prima edizione dei Giochi paralimpici estivi.

La cultura italiana degli anni Cinquanta, in materia di handicap, era scarsa e pregiudiziale ma l’operato di Antonio Maglio, in linea con quanto fatto anche da Guttmann oltremanica,  favorì un nuovo approccio al tema della disabilità: propose, infatti, ai pazienti disabili del Centro Paraplegici di Ostia “Villa Marina”, voluto nel 1957 dall’Inail, l’avviamento allo sport come pratica riabilitativa e di recupero dell’autostima.  Quello che ottenne grazie alle sue metodologie terapeutiche fu subito strabiliante: riduzione del tasso di mortalità e attenuazione degli stati depressivi dei pazienti.

Antonio Maglio, dunque, fece esattamente quello che Sir Ludwig Guttmann praticava a Stoke Mandeville da un decennio prima con il merito, però, di aver ampliato notevolmente i programmi con la proposta di discipline quali nuoto, pallacanestro, tennistavolo, getto del peso, lancio del giavellotto, tiro con l’arco, scherma e corsa in carrozzina.

Fino al 1974, anno in cui si assisterà alla costituzione dell’Associazione Nazionale per lo sport dei paraplegici (ANSPI), l’Inail ricoprì un ruolo fondamentale in quanto unico finanziatore e sostenitore dello sport dei paraplegici .

Alla fine degli anni Settanta l’ANSPI diviene FISHA (Federazione italiana sport handicappati), mantenendo, comunque, invariata la sua duplice missione di promuovere lo sport quale diritto per tutti i cittadini disabili e di stabilire un rapporto solido e chiaro con il Comitato Olimpico Nazionale (CONI). Quest’ultimo intento fu realizzato nel 1987 grazie al riconoscimento giuridico, proprio da parte del CONI, della FISHA ed il suo successivo ingresso nell’olimpo delle Federazioni Sportive Nazionali: il Presidente della FISHA, che estendeva la sua competenza anche in materia di disabilità mentale, entrò così di diritto nel governo dello sport nazionale, rappresentando anche la FICS (Federazione italiana ciechi sportivi) e la FSSI (Federazione sportiva silenziosi italiana).

La FSSI, che insieme a tutte le altre federazioni nel 1990 confluì nella FISD (Federazione italiana sport disabili), nel 1996 si scorporò da questa per prender parte al Comitato internazionale sport silenziosi (CISS), non aderendo più ai principi e ai programmi Olimpici e Paralimpici.

Quasi cinquant’anni dopo l’istituzione del primo centro paraplegico italiano, fortemente promosso dall’impegno creativo del dottor Maglio, con la Legge 189 del 2003 la FISD diventa Comitato Italiano Paralimpico (CIP) assumendo, così, prerogative analoghe al CONI, vale a dire il compito di garantire la massima diffusione dell’idea paralimpica ed il più proficuo avviamento alla pratica sportiva delle persone disabili. Il 22 Febbraio 2009 il CIP viene definitivamente trasformato nella Federazione Sportiva Paralimpica, profilo che mantiene invariato ancora oggi.

 

5.1. FISDIR: la Federazione italiana sport disabilità intellettiva relazionale.

La FISDIR rappresenta la Federazione cui il Comitato Italiano Paralimpico ha demandato la gestione, l’organizzazione e lo sviluppo delle attività sportive riservate ad atleti con disabilità intellettiva e relazionale.

Ad oggi gli atleti più meritevoli e competitivi con sindrome di Down, che vogliono prender parte alle attività a livello agonistico all’interno della FISDIR, hanno la possibilità di confrontarsi con i migliori agonisti del mondo nella classe 21 sia nelle discipline del nuoto che dell’atletica. Se alla fine degli anni Ottanta gli atleti italiani potevano cimentarsi solo in competizioni natatorie di caratura internazionali, grazie al primo evento organizzato a Reading dalla DSISO (Down Syndrome International Swimming Organization), nel 2010 fu la volta dell’atletica che, grazie alla formazione della IAADS (International Athletic Association for People with Down Syndrome), ha permesso l’organizzazione della prima edizione dei campionati mondiali in Messico.

Il medagliere italiano, nel campo del nuoto, conta ben tredici medaglie d’oro, cinque d’argento e dodici di bronzo. Nell’atletica, invece, la sola partecipazione al Mondiale messicano ha fruttato quattro ori, due argenti e tre bronzi.

Ad oggi la classe 21 si appresta a sbarcare anche in altre realtà sportive, quali il futsal, lo sci alpino ed il tennis tavolo.

La nascita e il riconoscimento di queste due Federazioni ha significato la possibilità, per queste persone, di rappresentare il proprio paese in una competizione internazionale e di essere e sentirsi atleti a tutti gli effetti, velando così la parola che li identifica troppo di frequente solo come disabili. Chi ha scelto di essere un atleta può mostrare a se stesso e al mondo circostante una crescita sportiva e, ancor di più, personale. Vincere una medaglia non è certo l’unico obiettivi ma è, certamente, quello che li spinge a profondere un impegno sempre ben oltre i livelli standard, a gettare il cuore oltre quell’ostacolo che, una volta superato, permette di scorgere un podio che rende ancora più bella questa l’esperienza. Una straordinaria opportunità e un’esperienza indelebile nei pensieri di chi ha l’onore di viverla.

TABELLA 3.1 – Principali provvedimenti legislativi in materia di sport per atleti disabili.

Legge n. 833/’78.

 

Istituzione del

servizio sanitario nazionale.

 

Si attribuisce ad esso

la competenza in materia di tutela sanitaria delle

attività sportive.

Decreto Ministeriale

18/02/1982.

 

Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica. Si defiscono le attività sportive agonistiche

(elenco degli esami da sostenere, comunicazione

della eventuale non idoneità anche alla società,

obbligo della società di conservare il certificato di

idoneità).

Gli sport vennero così suddivisi in “Attività ad impegno cardiovascolare e respiratorio lieve-moderato”, comprendente i seguenti sport: automobilismo, karting, bocce, bowling, scherma, tennis tavolo, tiro a segno, tiro con l’arco e vela; e “attività ad impegno respiratorio e cardiovascolare elevato”, che comprendeva i seguenti sport: atletica leggera, attività subacquee, pallacanestro in carrozzina, calcio, goalball, torball, canoa, canottaggio, ciclismo, equitazione, judo,

lotta, nuoto, pallanuoto, pallamano, pallavolo, pentathlon moderno, sci alpino, sci di fondo, slittino, sollevamento pesi, tennis.

 

Legge n. 104 del 1992.

 

Assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

 

Nell’articolo 23, comma 1, si prevede che l’attività e la pratica delle discipline sportive siano favorite senza limitazione alcuna.

 

 

Decreto Ministeriale 04/03/93.

 

Determinazione

dei protocolli per la concessione

dell’idoneità alla pratica sportiva agonistica

delle persone handicappate.

Si stabiliscono i criteri per il riconoscimento dell’idoneità agonistica.

 

Decreto legislativo n. 242 del 23 luglio 1999.

 

Riordinamento del C.O.N.I. L’articolo 12 bis di tale Decreto stabili l’impegno del CONI nella promozione sportiva per i disabili, specificando inoltre che il trattamento premiale deve essere lo stesso e che le guide devono poter accompagnare gli atleti sul podio.

 

Legge n. 189 del 15 luglio 2003 e suo decreto di attuazione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’8 aprile

2004.

Norme per la promozione della pratica dello sport da parte delle persone disabili. Viene riconosciuta definitivamente la valenza

sociale dell’organismo del CIP.

 

Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 novembre 2003 che modifica il precedente decreto del 29 novembre 2001. Definizione dei livelli essenziali di assistenza in materia di certificazioni.

Stabilisce che le visite d’idoneità agonistica per disabili sono gratuite in quanto comprese nei livelli essenziali di assistenza (LEA).